La santità è casa. E oggi si apre la porta

C’è un giorno, nel calendario cristiano, in cui la Chiesa smette di parlare ai santi e comincia a parlare con loro. È Tutti i Santi, il giorno in cui il cielo non è più un punto interrogativo, ma un vocabolario di volti. Una festa che non chiede di guardare in alto — o almeno non solo — ma di guardare attorno, e dentro, perché la santità, prima di essere un altare, è una chiamata quotidiana.

Papa Francesco, in Gaudete et Exsultate, lo ha ripetuto con una persuasione evangelica e quasi domestica: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere» (n. 7). È un paragrafo che sa di pane e casa, di mani che curano e di passi feriali. Non un quadro mistico, ma una fotografia ravvicinata dell’umano riuscito.

La santità oggi non viene presentata come conquista spirituale, ma come vocazione universale, che non teme la concretezza. Il Concilio lo aveva già scolpito: non esiste vita cristiana senza desiderio di santità. Papa Francesco lo dice senza giri di parole: «Non è sano amare il silenzio e fuggire l’incontro con l’altro… evitare la fatica della missione» (n. 26). La santità, se non scende in strada, resta letteratura. È invece “santità della porta accanto”, e il Papa ne fa un’icona di questo tempo spesso tentato da spiritualità disincarnate e autocentrate.

La storia europea ha conosciuto la retorica degli eroi e la mitologia degli individui invincibili. Oggi la fede risponde con la teologia dell’umile: santi che non brillano da soli ma riflettono la luce. La loro forza non sta nell’eccezione, ma nella fedeltà: «Non aver paura di puntare più in alto… Non aver paura della santità» (n. 32), scrive Francesco. Non è un programma per asceti solitari, ma una liberazione: “Non toglie forze, vita e gioia, ma al contrario diventa il modo per trovare sé stessi” (ibid.).

In un tempo che santifica la performance e misura la riuscita in termini di visibilità, i santi ricordano che la vita si compie nel dono, non nello spettacolo. Non sono figure estranee alla realtà: conoscono la fatica, le ferite, le lacrime. «Non siamo santi perché diciamo cose belle», ammonisce il Papa, «ma perché facciamo il bene» (cfr. n. 26). Una frase sobria, quasi brusca, in cui vibra l’antico lessico del Vangelo: il bene è concreto o non è.

E allora questa festa non è nostalgia, ma promessa. Non ci riporta indietro, ma ci proietta avanti. Il santo non è uno che è arrivato, ma uno che si lascia portare. Non un superuomo, ma un uomo abitato. Non un moralista, ma un amante; e poiché ama, resiste al cinismo, spezza la spirale dell’indifferenza, rimette in circolo la fiducia.

Ciò che celebriamo oggi non è una categoria religiosa ristretta, ma la possibilità, sempre attuale, di un’umano più grande. Il mondo, spesso, esalta la potenza; i santi custodiscono il seme. Il mondo loda chi divide; i santi ricompongono. Là dove la cultura digitale produce profili e avatar, essi mantengono un volto vero, non filtrato: «La santità è il volto più bello della Chiesa» (n. 9). Non perfetto, ma illuminato.

Per questo, in mezzo a tanti rumori, Tutti i Santi è una festa di mitezza intelligente, di speranza ragionata. Non ci dice che i santi sono altrove; ci dice che la terra è già misteriosamente attraversata dal cielo. È la giornata in cui la fede ritrova il suo timbro più limpido: la luce esiste e si può vivere.

E ogni volta che qualcuno — un ragazzo che non rinuncia al bene, una madre che perdona, un malato che non cede all’amarezza, un prete o una suora che restano fedeli, un laico che semina pace nel proprio lavoro — risponde a questa chiamata, un filo di cielo entra nella trama della storia. È lì che Tutti i Santi continua: dentro la vita, non fuori.

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