La Messa non è un’ideologia

Luglio 16, 2025

Un solo rito, nessun sottorito. Sulla varietà liturgica e l’unità nella riforma

La Chiesa cattolica conosce una varietà di riti legittimi, che esprimono la ricchezza dell’unica fede. Ma questa varietà non significa molteplicità arbitraria all’interno di uno stesso rito. Il rito romano, oggi, è uno: quello riformato dopo il Concilio Vaticano II, nella forma del Missale Romanum promulgato da san Paolo VI nel 1969 e aggiornato da san Giovanni Paolo II nel 2002. Non esistono “due forme” paritarie di un unico rito romano, ma una riforma organica e normativa approvata da tutta la Chiesa. È quanto ribadito da Papa Francesco nel motu proprio Traditionis Custodes (2021), che ha ristabilito l’autorità del vescovo diocesano come custode dell’unità liturgica.

Chi afferma che nella Chiesa coesistano “due messe” — la “messa di sempre” e quella “conciliare” — produce una frattura ecclesiologica, non una sana varietà. Laddove si era tollerato un uso limitato del Messale del 1962, era come concessione pastorale, soprattutto per fedeli anziani cresciuti con quella liturgia, non come diritto teologico per promuoverla fra i giovani in contrapposizione alla riforma conciliare.

Le Chiese orientali ci insegnano l’unità del rito

Se guardiamo alle Chiese cattoliche di rito orientale — bizantino, armeno, caldeo, copto, siro-malabarese, maronita… — notiamo che ciascuna possiede un proprio patrimonio liturgico coerente, trasmesso nei secoli e aggiornato con rispetto. Ma non esistono “sottoriti” all’interno del rito bizantino, o forme alternative nello stesso contesto. In una liturgia armena non si partecipa “secondo la forma del 1700” o del 1500, ma secondo la liturgia attualmente in uso, approvata dal Sinodo e dal patriarca.

La varietà tra i riti cattolici è segno della cattolicità — “unità nella diversità” — ma la moltiplicazione di sottoriti all’interno di un solo rito è un’anomalia postmoderna che rischia di mettere in crisi la comunione. La coerenza rituale è parte dell’ecclesiologia.

La “Messa di sempre” non è la Messa delle origini

Chi invoca la “Messa di sempre” per riferirsi al Messale tridentino del 1570 ignora (o finge di ignorare) che quel rito è una costruzione storica. Non è il rito dell’ultima cena, né delle comunità dei primi secoli, né del medioevo nella sua pluralità. Fu, piuttosto, un’espressione liturgica modellata nel contesto della Controriforma, per sottolineare con forza la dimensione sacrificale dell’Eucaristia e la centralità della presenza reale, in opposizione alle negazioni protestanti. Aveva una sua coerenza teologica e pastorale per l’epoca in cui nacque.

Ma la riforma liturgica del Vaticano II non ha negato quei contenuti, li ha ripensati nella luce dell’intera tradizione, con maggiore partecipazione attiva, proclamazione della Parola in lingua viva, preghiera comune e unità celebrativa. Il nuovo Messale non è una rottura, ma un approfondimento, fedele alla lex orandi e alla lex credendi. Dire che la Messa riformata sarebbe “meno sacra” è un’eresia liturgica.

Un’insensata battaglia ideologica

Il pericolo oggi è che alcuni gruppi, anche all’interno della Chiesa, stiano elevando una questione rituale a bandiera ideologica. L’abito liturgico diventa simbolo identitario; la lingua latina diventa marchio di purezza; il silenzio e l’altare “versus Deum” vengono mitizzati come espressioni autentiche, contrapponendoli al rito riformato, presentato come “modernista” o “protestantizzato”.

Ma non si può sostenere la superiorità di una forma liturgica sulla base di preferenze personali o nostalgie estetiche. La riforma conciliare ha autorità dottrinale, non è una moda. Il magistero di Papa Francesco, come già quello di Benedetto XVI, insiste sull’unità del rito romano e sulla necessità di evitare derive divisive. Come disse lo stesso Ratzinger nel libro Lo spirito della liturgia: “La liturgia non può essere fatta a pezzi, come se fosse un museo di forme del passato. Deve essere viva e conforme al senso della fede della Chiesa”.

Pur avendo concesso nel 2007, con il motu proprio Summorum Pontificum, un più largo uso del Messale del 1962, Benedetto XVI ne limitò l’applicazione alla logica dell’accoglienza e non della contrapposizione. Più volte spiegò che la riforma liturgica era “necessaria” e che il nuovo Messale era l’espressione normale della lex orandi.

Durante il suo governo, padre Stefano M. Manelli promosse con determinazione dal 2008 in poi l’uso della forma straordinaria del rito romano – secondo il Messale del 1962 – all’interno dell’Istituto, auspicandone una sempre più ampia diffusione. In particolare, incoraggiò la celebrazione quotidiana di almeno una Messa tridentina in ciascuna Casa Mariana, l’introduzione regolare di tale forma nei santuari e nelle parrocchie affidate ai frati, nonché la sua estensione sistematica agli ambienti di formazione iniziale. Questa linea d’indirizzo ha sollevò nel tempo interrogativi e criticità circa l’equilibrio con le indicazioni del Magistero e l’unità rituale all’interno della comunità ecclesiale. Ha soprattutto diviso la sua famiglia religiosa facendo da elemento scatenante a un provvidenziale commissariamento (2013-2021) che ha purificato e riformato i Frati Francescani dell’Immacolata restituendoli alla purezza del carisma kolbiano.

Una Chiesa madre, non matrigna

La Chiesa è madre, non matrigna. Ha concesso per carità pastorale un uso limitato di una forma liturgica del passato, ma non può permettere che diventi l’occasione per negare la riforma conciliare. La fede non si misura dal tipo di messale che si usa, ma dalla comunione con la Chiesa intera, dal riconoscere che l’Eucaristia è la celebrazione del popolo di Dio guidato dal vescovo in comunione con il Papa.

Una liturgia scissa, polarizzata, usata come strumento di lotta, tradisce il suo fine più profondo: l’unità. Solo una celebrazione veramente ecclesiale, obbediente e bella può edificare la Chiesa.

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