Dopo quasi cinquant’anni, il 4 ottobre torna festa nazionale: non un semplice giorno libero, ma il riconoscimento che San Francesco d’Assisi, profeta di pace e fraternità, resta la coscienza viva dell’Italia e il suo volto più autentico davanti al mondo.
Non si tratta solo di un calendario che si aggiorna, ma di un Paese che ritrova se stesso. Dopo quasi cinquant’anni, il 4 ottobre torna ad essere festa nazionale: il giorno di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, non sarà più relegato a una ricorrenza per pochi, ma riconosciuto solennemente come momento di memoria civile e religiosa. Il Parlamento ha approvato in via definitiva la legge che ne sancisce il ripristino.
Qualcuno penserà che sia un fatto marginale, una concessione al folklore o un lusso che l’Italia non può permettersi. Ma Francesco non è un lusso: è l’anima più profonda del nostro Paese. È il poverello che ha sfidato la logica del potere con la logica del Vangelo, che ha deposto le armi dopo averle imbracciate, che ha scelto di essere fratello universale quando l’Europa si dilaniava tra crociate e guerre intestine. È il santo che parla a credenti e non credenti, che ispira la Chiesa e la società civile, che ha saputo unire poesia e politica, mistica e concretezza, profezia e fraternità.
Ripristinare la festa di San Francesco significa riconoscere che ci sono valori più forti del denaro. Certo, la Commissione Bilancio ha fatto notare i costi: 10,6 milioni di euro per le maggiorazioni a chi lavorerà quel giorno. Ma qui si tratta di un investimento nel capitale simbolico e spirituale della nazione. Non è forse più caro il prezzo che stiamo pagando in termini di divisioni, guerre, odio sociale? San Francesco non è un santo “clericale”: è un uomo che ha proposto un metodo di pace, attuale e rivoluzionario ancora oggi. L’incontro con il sultano Malik al-Kamil durante la V Crociata, otto secoli fa, resta un monito: dialogare è possibile, fermare le armi è possibile. Don Tonino Bello lo dimostrò a Sarajevo nel 1992, quando con altri cinquecento disarmati riuscì a far tacere i fucili dei cecchini.
Nel 2026 celebreremo gli 800 anni della morte di Francesco. Non sarà solo una commemorazione, ma un banco di prova per l’Italia e per l’Europa: vogliamo continuare a raccontarci storie di armi e di muri, o osiamo tornare a credere che la fraternità universale è un obiettivo politico e sociale, oltre che spirituale? In un tempo in cui la guerra a Gaza insanguina la terra di Cristo, in cui nuove tensioni attraversano l’Europa e il Mediterraneo, il messaggio di Francesco non è una poesia romantica, ma l’unico antidoto possibile alla follia del riarmo.
C’è chi sorride pensando che un giorno di festa non cambierà il mondo. Ma Francesco ci ha insegnato che il mondo può cambiare anche partendo da un gesto piccolo, apparentemente inutile: lodare il sole e la luna, stringere la mano al nemico, cantare la pace quando tutti gridano alla guerra. Per questo il 4 ottobre non è solo un giorno di memoria religiosa, ma di coscienza civile. Non ci chiede di fermare solo le macchine e gli uffici, ma soprattutto di fermare il cuore e domandarci: in quale Italia vogliamo vivere?
La risposta ce l’ha lasciata lui, il giullare di Dio: in un’Italia che sappia riconoscere ogni uomo come fratello e ogni creatura come sorella.
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