«La guerra è un sacrilegio. È un attentato contro il tempio dell’umanità, che è ogni uomo».
(Don Primo Mazzolari)
Nel tempo in cui le bombe oscurano il cielo e la verità si fa ostaggio della propaganda, la fede diventa l’ultima trincea dell’umano. Le guerre che incendiano il mondo – dall’Ucraina alla Palestina, dal Sahel al Caucaso – non sono solo conflitti di potere, ma crisi profonde dell’anima. Non c’è solo la devastazione materiale, ma l’erosione lenta del senso, la messa a tacere della coscienza, il raffreddarsi della compassione. In questo scenario, credere non è fuggire, ma resistere. Non è rifugiarsi, ma restare. Non è illudersi, ma lottare per la verità e la speranza.
Quando la fede è minacciata dal cinismo
C’è una tentazione sottile che agisce in tempo di guerra: quella del cinismo. Una fede adulta, però, non si accontenta di «pregare per la pace» mentre tace sulle cause dell’ingiustizia, o accetta la violenza come “male necessario”. I cristiani non sono chiamati a essere neutrali, ma evangelici. Papa Francesco non smetteva di ricordarlo: «Non si può essere cristiani veri senza essere operatori di pace».
Nel cuore del conflitto, allora, la fede non si fa complice di chi benedice le armi, né si lascia addomesticare da un patriottismo spiritualizzato. Si fa invece profezia disarmata, che denuncia la menzogna della guerra come strumento di giustizia. E diventa ospitalità spirituale, che accoglie il dolore di tutti, senza confini etnici o politici.
In questa linea, Papa Leone XIV – successore di Francesco – ha ripreso con forza il filo del magistero pacifico, rilanciando la Pacem in terris e la necessità di «una pace giusta che non si costruisca sulla sopraffazione o sul calcolo degli interessi, ma sulla verità, la giustizia e la fiducia reciproca tra i popoli».
La guerra ci sfida a credere nella risurrezione
La fede cristiana nasce dalla croce, non dalla potenza. E proclama una risurrezione che passa attraverso il fallimento, la sconfitta, il silenzio. Oggi più che mai, credere significa guardare le rovine e dire: “Non finisce qui”. È un atto di resistenza interiore, che si nutre di memoria e promessa.
In Ucraina, sacerdoti che non abbandonano le loro parrocchie sotto i bombardamenti. In Palestina, madri che pregano con il Rosario in mano tra le macerie. In Africa, catechisti che camminano giorni per portare il Vangelo nei campi profughi. Sono volti di una fede che non si arrende al calcolo strategico. Sono frammenti di luce, incastonati nel buio.
Una Chiesa che sa piangere
Ci si salva nella verità e nella compassione. Una fede vera non dà spiegazioni facili. Non cerca il colpevole da crocifiggere, ma si inginocchia nel dolore dell’altro. Come Maria sotto la croce, la Chiesa è madre quando non parla troppo, ma accompagna.
Papa Francesco, nel suo magistero sulla guerra, ha più volte richiamato la dimensione della lacrima: «Chi ha pianto per i bambini morti sotto le bombe?». È una domanda che smaschera le nostre anestesie. Una fede vera non è indifferente: sa commuoversi, cioè muoversi con l’altro.
Papa Leone XIV, nel suo primo discorso al corpo diplomatico, ha rinnovato l’invito a «lasciarsi ferire dalle ferite del mondo, perché solo così possiamo servire l’umanità ferita». La sua spiritualità del “cuore disarmato” si pone nel solco della compassione attiva, capace di generare ponti anche laddove sembrano prevalere le macerie.
Testimonianze che sfidano la barbarie
Oggi, come ieri, ci sono uomini e donne che rendono la fede credibile nel cuore della guerra. Come Christian de Chergé, il priore di Tibhirine, che scrisse il suo testamento spirituale sapendo di poter morire: «Quando arriverà il momento, vorrei che il mio ultimo istante fosse un grido di perdono». O come Fratel Michael Sfadjian, francescano armeno, morto ad Aleppo nel 2023 per non abbandonare gli orfani della guerra.
Sono vite che parlano più di mille omelie. Ci ricordano che credere, oggi, significa schierarsi per l’umano contro la barbarie. Che l’unico Dio credibile è quello che condivide la croce. E che la fede, quando è autentica, non cerca di spiegare il dolore: ci cammina accanto.
Disarmare il cuore
In tempo di guerra, credere è un atto politico. Ma non nel senso delle fazioni: nel senso della polis, della responsabilità verso il bene comune, della costruzione di relazioni non violente.
Il Vangelo ci chiede di disarmare il cuore, di rinunciare alla vendetta, di scegliere il perdono come forza storica. È una proposta radicale, e per questo scandalosa. Ma è l’unica che non lascia il mondo com’è.
Come scriveva don Tonino Bello:
«La pace non si conquista con la spada, ma con la carezza. Perché la pace è il nome adulto dell’amore».
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