«La Chiesa è davvero cattolica quando risplende nella varietà dei suoi riti». È un paradosso solo apparente: l’unità non è uniformità. Il Concilio Vaticano II ha tracciato per la liturgia della Chiesa due grandi sentieri complementari: la riforma del rito romano (Sacrosanctum Concilium) e il recupero delle autentiche tradizioni orientali (Orientalium Ecclesiarum).
Mentre l’Occidente latino rinnovava il proprio rito culminando nel Messale di Paolo VI, le Chiese orientali venivano incoraggiate non a uniformarsi, ma a liberarsi dalle “latinizzazioni” introdotte nei secoli e a tornare alle proprie fonti.
E proprio questo processo – di purificazione e di ritorno all’origine, non di nostalgia per il latino – rappresenta oggi una risposta forte e silenziosa alle polemiche tradizionaliste che agitano una parte dell’Occidente ecclesiale.
Ricevere l’Eucaristia: la fede nei gesti, non la forma unica
In molte Chiese di rito bizantino – come la Greco-Cattolica Ucraina – la Comunione si riceve per intinzione, con un cucchiaio liturgico (lavída) che unisce pane e vino consacrati. Il fedele non prende l’Ostia, non si inginocchia, non riceve “sulla lingua”: eppure è Cristo che riceve, con solennità, in un gesto millenario attestato dal X secolo.
Nella Chiesa siro-malabarese (India), si riceve in piedi, con il pane intinto nella mano destra e assunto con la sinistra, senza toccarlo con le dita. Nella Chiesa armena, inginocchiati, con panno sotto il mento. Nella Chiesa etiopica, con le mani coperte da un velo bianco.
Queste forme così diverse – e profondamente riverenti – sono un invito a superare la falsa alternativa “sulla mano o sulla lingua”, che troppo spesso diventa oggi bandiera ideologica.
Riformati o restaurati? La lezione orientale
Le Chiese orientali cattoliche si sono “riformate” senza inventare nulla. Nessun “Novus Ordo”, ma un ritorno alle fonti autentiche:
- La Chiesa Maronita ha riformato il Qurbono (1992-2005).
- La Greco-Cattolica Ucraina ha eliminato gli elementi latini per tornare alla liturgia bizantina.
- La Siro-Malabarese ha approvato nel 2021 un messale uniformato contro le derive latinizzanti.
Il Concilio non ha chiesto a queste Chiese di “modernizzarsi”, ma di ritrovare la loro forma originaria. E spesso questa forma è più antica del rito tridentino tanto invocato da alcuni ambienti occidentali.
La varietà rituale non divide: manifesta la comunione
«La diversità delle forme liturgiche non pregiudica l’unità della Chiesa» (Ecclesia de Eucharistia, 50). È la comunione nella fede e nella sacramentalità che unisce, non la postura o la lingua liturgica.
Ogni Chiesa sui iuris ha il diritto e il dovere di custodire la propria tradizione liturgica (CCEO, can. 28). Non esiste una “forma più degna” universale: la Chiesa non è una monocultura rituale, ma un poliedro liturgico in cui ogni faccia rifrange la luce dell’unico mistero.
Tradizione o tradizionalismo?
È qui che cade la retorica dei tradizionalisti: mentre gridano al “ritorno alla Messa di sempre”, ignorano che le Chiese orientali – quelle più antiche – hanno riformato i propri riti non tornando al latino, ma abbandonandolo.
Altro che “Messa di sempre”: il latino non è la lingua di Gesù, né dei primi secoli in Oriente. Le lingue sacre furono l’aramaico, il siriaco, il greco, il copto. Le riforme orientali non hanno rispolverato il passato idealizzato, ma hanno guarito gli abusi del passato recente e ricondotto i fedeli al cuore del mistero: Cristo stesso.
Mentre si chiede che nella Chiesa latina convivano due riti paralleli – tridentino e riformato – le Chiese orientali ci mostrano un’altra via: una riforma rispettosa della tradizione, guidata dal Magistero, senza nostalgia ideologica.
Una vera “Messa di sempre” guarda a Cristo
La vera “Messa di sempre” non è quella in latino, con le spalle al popolo o con il manipolo. È quella che annuncia il mistero pasquale con la voce viva della Chiesa, sia essa in aramaico o in italiano, in siriaco o in greco.
L’Eucaristia non è uno stendardo per battaglie di parte, ma la presenza reale di Cristo che unisce il Corpo mistico. Le tradizioni orientali, con i loro cucchiai, panni, inchini, lingue antiche e gesti contemplativi, non ci portano indietro nel tempo, ma in profondità nel mistero.
È da lì che nasce la riverenza, non da una forma liturgica intoccabile. Il vero problema pastorale non è “come” ricevere la Comunione, ma se la riceviamo con fede viva, cuore puro e coscienza ecclesiale.
Se l’Oriente ha saputo riformarsi tornando all’origine, l’Occidente dovrebbe imparare a riformarsi senza nostalgie, mettendo al centro Cristo e non il latino.
Una riforma che unisce non divide
Alla fine, la grande lezione orientale è ecclesiologica: le forme si riformano, le posture si adattano, ma il cuore della liturgia è la comunione nella fede, non la battaglia dei simboli.
Chi brandisce il latino come identità, ha già perso di vista l’essenziale: Cristo pane vivo, offerto in ogni lingua, accolto in ogni rito, adorato da ogni popolo.
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56): questo resta, anche se si riceve con un cucchiaio, con un panno sotto il mento o con le mani velate.
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